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Novembre, mese di verifiche. Tutto bene per l’auto, lo si legge dai bilanci di periodo. Procedendo in ordine sparso e solo per citarne alcuni, per Volkswagen aspettative confermate, crescita del Gruppo e margine operativo all’8,6%. In Cina si accelera la ripresa.
Per Stellantis ricavi netti in crescita del 29%.
Renault aumenta il fatturato, con Dacia e Alpine che proseguono a riscuotere successi.
BMW Group: forte performance operativa.
Mazda, nel primo semestre fiscale parametri in positivo.
Mercedes-Benz Group registra solidi risultati finanziari.
Nissan in rialzo.
L’unica nota in fuga dall’armonioso spartito è di Toyota: secondo trimestre fiscale, utili in calo del 30%. Toyota motiva con la crescita dei prezzi delle materie prime, oltre a 97 miliardi di oneri straordinari dovuti alla chiusura della fabbrica russa di San Pietroburgo. Tuttavia, sempre da Toyota arriva la dichiarazione che la produzione è aumentata del 30% e che a settembre ha prodotto 887.733 veicoli a livello globale, un record per un singolo mese e un salto del 73% tendenziale. L’avvertimento del portavoce di Toyota considera la crescita della produzione di settembre come non sostenibile e aggiunge: “Eviteremmo di chiamarla ripresa”. Nobile intelletto, ma ognuno può dare ai risultati del proprio business il nome che crede, l’importante è che i conti tornino.

E se la crescita rimbalza negli Stati Uniti e in Cina, anche l’industria automobilistica europea si è data da fare per far quadrare i conti e per recuperare il passivo portato da guerra, forniture mancate e limiti di emissioni, affidandosi alla strategia dei prezzi elevati e del target sul mercato premium.

Un programma che ha portato profitti per Case e Reti, ma che nello stesso tempo ha tagliato fuori una parte di mercato. Come già scritto sulle colonne di questo giornale: il Cliente (privato) capirà...
Il passato è passato: si torni pure a un radioso futuro.
Nel mondo, General Motors, per mano di Mary Barra, insegue con gentile determinazione la triplice corona della formula: zero incidenti, zero emissioni e zero congestioni.
Ford e Volkswagen, con separazione consensuale, a Pittsburgh scaricano la guida autonoma, pensando a profitti pronta cassa.
Renault crea cose e getta le basi più importanti con un legante cinese.
Tesla respinge, con una smentita arrivata via Twitter dallo stesso Elon Musk, l’ipotesi che la vedrebbe voler esportare la produzione cinese in Usa. Di certo solo voci frutto di menti perverse.
Federal Reserve toglie pressione al costo del denaro.
La Federal Reserve di New York, che controlla l’indice della catena di approvvigionamento globale, continua a mostrare una congestione in calo.
Le tariffe dei noli marittimi rimangono elevate.
L’Opec, per bocca del suo segretario generale Haitham al-Ghais, invita a investire rapidamente in petrolio in vista della crescente domanda di idrocarburi.
Più a Est, la Cina, con imperturbabilità anglosassone, propone tecnologie innovative a prezzi di realizzo; nel frattempo l’export cresce, le economie di scala per produzione e gestione interdoganale trovano nuove certezze.
Sempre in prospettiva, si registra il preoccupante flop della Cop27, il nuovo assalto dell’Unione europea con l’Euro7 e la conferma del Fit for 55.
In Italia, infine, il nuovo Ministro delle Infrastrutture ha altri impegni, diversi dall’auto.


Viva l’escalation tecnologica

Con il preciso intento di capirci qualcosa, partiamo guardando ai cambiamenti della nostra epoca.
Una miscela di elementi messi in amalgama con modalità e tempi diversi, una serie di variazioni, di metamorfosi, perfino di mutazioni. Sembra come se il vero protagonista sia il cambiamento stesso, quello continuo, quello di Aristotele dove il movimento è eterno, come il tempo. Un concetto che ha aspettato 2.250 anni per essere sintetizzato in una formula matematica.
Non esistono più posizioni fisse, o meglio lungamente stabili. Ce ne rendiamo conto durante le elezioni politiche, per via di quei pochi che ancora vanno a votare. Elettorati camaleontici, instancabili migratori del seggio. Surfisti dell’onda parlamentare. Si assiste a una costante instabilità qualificata dal disorientamento.
Un atteggiamento derivato da processi che non è stato possibile governare, un modo di esistere generato dagli effetti avversi della globalizzazione.
Scavando tra le macerie del concetto originale di globalizzazione si trovano pochi resti di prospettive edificanti, di principi aggreganti, di elementi capaci di generare ricchezza, facendo crescere chi ha di meno, senza svantaggiare chi ha di più. Bei propositi, ma quanto è successo e quanto sta succedendo ci dice che non è andata così. La globalizzazione non è un gioco a informazione perfetta. Non vince chi è più bravo. C’è il lancio dei dadi, un processo prevalentemente stocastico, modellizzato nello studio dell’incertezza. E questa volta i perdenti sono gli occidentali. Gli stessi che hanno fatto crescere il resto del mondo penalizzando la propria componente, quella più avanzata. Una bella lezione che ha creato il disorientamento sociale e culturale, soprattutto perché la globalizzazione è stata promossa come la genesi di una cultura uniforme di massa. La stessa uniformità che la Cina conosce molto bene e che ha imparato a evitare con disinvoltura anglosassone dal diversamente recente 1978, quando Deng Xiaoping propose l’idea Boluan Fanzheng, letteralmente “eliminare il caos e tornare alla normalità”. Cioè l’uniformità del comunismo definita come il caos, quello che appiattisce; perché la crescita viene dalle differenze, viene dalla concorrenza, perché la normalità abita solamente nel libero mercato.

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